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È la prima squadra di roller derby nata nel Sud Italia. La tenacia di una delle sue fondatrici ha già vinto

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Anna Zito e le Poison Kittens «Negli anni questa disciplina è stata un po’ “marchiata” perché il corpo è in mostra e allora abbiamo deciso di realizzare dei progetti fotografici come il calendario per raccontare il valore della diversità la nostra storia e raccogliere fondi per sostenerci»
Anna zito
Foto di: © Marta Genova

Arriva al nostro appuntamento in bici, in spalla uno zaino grande quasi quanto lei. Anna Zito è piccola di statura ma è grande in quello che fa. Palermitana, classe ‘81, è una delle fondatrici delle Poison Kittens, la squadra di Roller Derby della città, oltre a essere project manager per il settore Mice – organizzazione di viaggi incentivi per aziende italiane ed estere - e responsabile dell’area palco e della parte artistica di Etna Comics, il Festival internazionale del fumetto considerato il più grande del Sud Italia che si svolge a Catania. Troviamo un posto isolato, indossa il completino della squadra, protezioni, pattini, caschetto, mette un po’ di rossetto e inizia a riscaldarsi, voglio farle anche qualche fotografia in movimento.

Il Roller Derby è uno degli sport con la crescita più veloce a livello mondiale. Dove nasce e come arriva nel nostro paese?
«Hai presente il film “Ragazze vincenti” con Geena Davis e Madonna? Lo spirito è quello anche se il periodo storico in cui nasce è quello degli anni 30, in America. Sport prevalentemente femminile, inizialmente era una forma di intrattenimento, nel tempo si è trasformato diventando ciò che è oggi, una pratica sportiva di contatto su pattini a rotelle (quad). In Italia arriva nel 2011 e a Palermo contemporaneamente con Napoli e Milano. Un passaparola tra amiche, io avevo la passione dei pattini fin da bambina, in particolare quelli a quattro ruote. Ho fatto parte della prima squadra formatasi in città che poi nel 2014 si è sciolta per “divergenze di vedute”. Nascono così le Poison Kittens. Oggi siamo una A.S.D. Sono tante le persone che si uniscono a noi, essendo uno sport totalmente inclusivo. Il recruiting (reclutamento) è sempre aperto, è possibile contattarci tramite i nostri canali social».

Chi vince nel Roller Derby?
«Vince chi resiste (ride, ndr). Si scende in campo in quindici per squadra, su una pista ellittica chiamata track, in una gara tra velocità, strategia e tecnica. La partita è in due periodi di trenta minuti, divisi a loro volta in jam di due minuti. In questi piccoli set le squadre schierano cinque giocatrici. C’è una compagine di almeno sette arbitri e diverse regole di gioco. A livello mondiale questo sport è regolato dalla WFTDA (Women’s Flat Track Derby Association) e nel nostro Paese c’è la LIRD, (Lega Italiana Roller Derby) che conta dodici squadre. Dal 2020 questa pratica è entrata a far parte ufficialmente della FISR, (Federazione italiana sport rotellistici)».

Per fare crescere la squadra per come merita serve il supporto delle istituzioni, dell’amministrazione cittadina. Che risposte avete avuto?
«Nessuna positiva purtroppo. Noi mettiamo la nostra competenza, il duro lavoro e l’impegno ma per crescere è necessario, come per tutti gli sport, il loro supporto e lo chiediamo a gran voce. Ci serve uno spazio dove allenarci regolarmente durante la settimana, anche al chiuso in inverno. Facciamo tutto in autofinanziamento o con gli sponsor. Per le trasferte di campionato ci sveniamo, tra alloggi e biglietti aerei con prezzi esorbitanti e spesso senza voli diretti. A Palermo ci sono i palazzetti dello sport ma non vogliono ospitarci per “timore” di danneggiamenti. Si allenano in tutto il mondo, questi problemi li creano solo qui! Le nostre richieste all’assessorato allo Sport sono state diverse negli anni, perché è il Comune che deve comunicare con chi gestisce i palazzetti, anche per poter ospitare le partite di campionato. Questo sport non ha meno dignità di quelli più noti e abbiamo la stessa legittimità degli altri. Bisognerebbe supportare e investire su realtà simili, femminili e fondate sui valori della condivisione, l’inclusione, l’integrazione».

Tu fai attività sportiva da sempre, poi approdi al Roller Derby e non lo molli più, perché?
«È uno sport estremo, che mi da sollecitazioni forti a livello emotivo e fisico. E sono innamoratissima di tutte le mie compagne. Sono con loro da dodici anni. Una sinergia meravigliosa, anche con tante divergenze e confronti costruttivi. Un parterre variegato, c’è la dj, l’avvocato, la mamma, l’architetto, l’ingegnere, chi lavora nel design, chi nel teatro. È uno spazio di libertà che permette di essere se stesse. Promuoviamo attività di sensibilizzazione anche volte al body positivity. Negli anni questa disciplina è stata un po’ “marchiata” perché il corpo è in mostra e allora abbiamo deciso di realizzare dei progetti fotografici come il calendario, per raccontare i nostri corpi e al contempo la nostra storia. Qui c’è spazio per tutte a prescindere dalla propria corporatura, misure, prestanza fisica ed età. A muovere le cose nel track infatti sono la strategia e la tecnica. Partecipiamo inoltre a bandi con le scuole e promuoviamo questo sport anche nelle realtà più difficili della città».

Nel calendario c’è una fotografia che ti ritrae mettendo in evidenza le tue cicatrici, corredata da un tuo pensiero. Com’è andata?
«Scriverne all’inizio mi creava disagio, mi sembrava di mettermi al centro dell’attenzione ma poi ho capito che poteva essere di aiuto per altre persone. Mi sono ricollegata al mio dolore che sta nel ricordare la sofferenza della mia famiglia e infatti non cito i miei fratelli perché significa aprire la parte emotiva».

Lo sguardo degli altri che effetto ti fa?
«Non mi disturba, credo sia un fatto caratteriale ma dipende anche dal modo in cui è stato affrontato in famiglia, dove la cosa si è normalizzata; non era l’estetica la cosa importante nella vita, la parte fondamentale era avere la pertinenza di ciò che si diceva. Tante persone dicono e fanno con superficialità, non voglio pensare alla cattiveria. Chi negli anni mi ha chiesto perché non mi operassi per togliermi le ustioni, non ha idea di cosa significhi un percorso di quel tipo e quando in campo capitano sguardi insistenti, mi fermo e apro le braccia come per dire “guardatemi, eccomi”».

 Accadde la sera del 9 giugno 1990. C’erano i Mondiali. Anna aveva fame e decise di preparare del riso e nel tentativo di prenderlo dallo stipetto sopra la macchina del gas, la camicia da notte iniziò a prenderle fuoco. Ecco una parte del suo racconto he accompagna la foto del calendario della squadra:

[…]Nel giro di poco, diventai la donna torcia senza i suoi reali poteri. Mia madre cercò come poté di soffocare il fuoco che chiedeva il mio corpo ma io mi dimenavo troppo, mi sentivo soffocare. Quando a un certo punto apparve mio padre, ci incrociammo in corridoio e lui ebbe l’ardire di infilare le mani in questa barriera e strappare via quello che rimaneva della camicia e del fuoco.

Ringrazio il cervello per aver interrotto le connessioni nervose perché mi permise di non sentire dolore e rispondere con umorismo a quanto appena successo: “uh mamma, guarda mi esce il fumo dalla pelle, sembro un fiammifero spento!”. Da quel momento fu il sonno, la corsa contro il

tempo, contro la morte. Tornata alla vita di tutti i giorni, giocavo, facevo sport, non mi nascondevo nei miei vestiti, non mi riparavo dalla società. Mi domandavo perché mai avrei dovuto.

È successo, ero viva e non volevo privarmi di nulla, per cui nelle tappe della mia vita ho aggiunto vari tasselli: accettazione, consapevolezza, bikini, indipendenza mentale e fisica dagli stereotipi, le pizzette… Voglia di essere apprezzata così per come si è.

Sono i miei bassorilievi, la mia mappa del tesoro personale, la mia corazza, il mio corpetto. Certo, ora non è che è sempre tutto rose e fiori di gelsomino, capita anche a me di vedermi meno

di altre volte ma penso sia normale. Ho il 75% del corpo disegnato e percorso dal fuoco, mio elemento primigenio, mio amico e in mio amico e insegnante. E Grazie, anche a te […].

(Pubblicato sul mensile cartaceo Feme News)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

di Marta Genova