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È stata la prima pianista jazz d'Italia ma l'hanno dimenticata: Dora Musumeci

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Parlava due "lingue" musicali e il suo talento era riconosciuto ovunque, eppure in Italia non vogliono ricordarla. La storia incredibile di una musicista che suonò con i più grandi sfidando un mondo prettamente maschile
Dora Musumeci in una foto autografata (immagine gentilmente concessa dal maestro Rosario Chiara)
Locandina di una delle esibizioni di Dora Musumeci
Dora Musumeci
Dora Musumeci è con il maestro Cinico Angelini dopo essersi esibita. Lacco Ameno, 1955 (foto gentilmente concessa da Roby Matano)
Concerto a Lacco Ameno (Ischia), 1955 (foto gentilmente concessa da Roby Matano)
Un momento di pausa durante il concerto a Lacco Ameno (Ischia), 1955 (foto gentilmente concessa da Roby Matano)
Dora Musumeci

Dora Musumeci, la straordinaria Dora Musumeci, è stata dimenticata nel senso più vero e letterale del termine. Lei, che è stata la prima pianista jazz d’Italia, oltre ad essere compositrice e cantante.

Ho passato tre giorni a Catania, sua città d’origine, chiedendo in giro, agli anziani del luogo, ai proprietari di locali e negozi storici, e prima ancora di partire era intercorso un fitto scambio di e-mail e telefonate con l’amministrazione comunale della città, tra assessorati, ufficio stampa e staff del sindaco, e con i due teatri, Massimo Bellini e Stabile dove si esibì numerose volte.

Cercavo notizie e materiale fotografico su questa grande artista siciliana, ma il risultato è stato, purtroppo, uno soltanto: il nulla

E coincidenza vuole che l’amministrazione catanese nel tentativo (fallito) di rendere omaggio alla sua memoria, due anni fa le ha intitolato una stradina senza uscita proprio nel quartiere San Nullo, in periferia, chiamato da chi lì vive, “il quartiere incompiuto”.

Forse questo non è il modo migliore per iniziare a raccontare di questa donna che ha segnato la storia nella musica, ma credo che sia l’unico possibile se davvero vogliamo che a questo nome venga data finalmente la dignità che merita. La luce che merita.

Nacque nel 1934 e tutta la sua vita è stata in simbiosi con la musica. Il suo adorato padre, Totò Musumeci, era violinista al Teatro Massimo Vincenzo Bellini, la nonna suonava il piano.

Definita “bambina prodigio”, Giulia Isidora (questo il suo nome all’anagrafe) a sei anni già si esibiva in pubblico. Non amava questa definizione perché per lei era stato naturale eppure la sua storia ci si avvicina molto, ad un prodigio intendo: Sicilia anni ‘50, musica Jazz, donna.

Bastano questi tre elementi per definire un prodigio quello che ha fatto, diventando un nome tra i più grandi del panorama internazionale del jazz in un periodo storico, in cui in Italia, men che meno a Catania, il jazz stentava ad esplodere, era qualcosa di assolutamente nuovo.

Ma chi era Dora? E perché nessuno la ricorda più? Sapevo che trovando la prima risposta, avrei avuto anche la seconda.

A raccontarmi qualcosa di lei sono stati il maestro Rosario Chiara, grande violinista oggi novantenne che ha suonato a lungo con Dora e con i più grandi direttori d’orchestra del mondo e il produttore Roby Matano, sì proprio il cantante dei Campioni, colui che ha scoperto Lucio Battisti; in pochi sanno che i suoi esordi sono legati alla pianista catanese.

Il maestro Chiara mi accoglie con sua moglie Anna. Sono emozionati all’idea di parlarmi di Dora. Si conobbero negli anni 50, avevano vent’anni. «Lei iniziò con una orchestrina, suonava anche la fisarmonica – dice il maestro –. Dopo qualche anno lei “prese il volo” e mi chiamava di tanto in tanto per chiedermi se poteva venire qui a Ragalna (paesino a pochi chilometri da Catania, ndr), stava anche dieci giorni. Le piaceva la pace di qui. Era una donna molto intelligente, acuta e aveva preso un lato del carattere del padre che era anche un grande simpatico intrattenitore. E Dora quando trovava la compagnia giusta, era la stessa».

«Era un’amica vera – ne parla con dolcezza Anna – e se una persona non le piaceva non lo nascondeva. Non era facile di carattere, si dava quelle arie giuste che poteva permettersi, ma non era come pensavano, si proteggeva in qualche modo. L’hanno messa un po’ in disparte, anche le nuove generazioni. Di certo lei era conosciutissima all’estero dove stava quasi sempre».
Chiedo del padre di Dora, sempre presente in tutta la sua vita, «Non era una figura ingombrante. Era una figura importante per lei – mi dicono –. La adorava. Dora era grande ed era al contempo una bambina con lui, voleva sempre le coccole. Girava il mondo e quando ritornava a casa, aveva la sua stanza che la madre le aveva lasciato intatta».

Ed io in quella casa ci sono andata, ma chi la abita oggi non mi ha voluto parlare.

«Ho passato con lei due anni meravigliosi - mi dice Roby Matano –, io facevo il cantante e bassista, si era creato un feeling veramente forte. L’ultima volta che abbiamo suonato insieme eravamo al carnevale di Viareggio, quando ricevetti la lettera della chiamata militare... e fu lì che le nostre strade si separarono, quando tornai alla musica dopo due anni entrai nei Campioni, ma ho sempre seguito la sua carriera. Eravamo come fratello e sorella. Una cosa che mi è rimasta impressa – ricorda ancora – è che io suonavo il contrabbasso e quando lei faceva dei pezzi un po’ veloci voleva sentire il “colpo”; ora capitava che non conoscessi gli accordi a volte, ma lei voleva sentire il rumore e allora mi faceva segno, io mi allontanavo in modo che non sentisse le note, sbagliate magari (ride), però sentiva il ritmo.

Non ho mai più suonato in un’orchestra con donne – aggiunge –, e comunque era assai difficile trovare una come lei, sono stato fortunato perché ho imparato molto. Dora dovrebbe stare nei libri tra i grandi jazzisti del mondo. Era unica per un insieme di cose che racchiudono anche il suo essere amica con tutti, di comportarsi sempre cercando di aiutare, questo la rendeva una grande Artista. C’era massima attenzione e ammirazione per Dora, questo lo ricordo. Andrebbe istituito un premio internazionale a lei intitolato».

Nel libro L‘altra metà del jazz di Gerlando Gatto, grande amico di Dora, trovo una lunga intervista raccolta nel 1998. Lei aveva 64 anni allora e aveva lasciato il jazz rinunciando a quel trono che le spettava di diritto.

Perché ho lasciato il jazz è proprio il titolo di quella intervista, dalla quale ho appreso anche i punti salienti della sua formazione.

Cominciò a studiare pianoforte a cinque anni e a sei-sette già si esibiva. A nove anni iniziò a suonare nelle orchestre nei locali, nei night, nei caffè, e c’erano i concerti alle sei del pomeriggio. Lavorava quasi come una professionista. A 12 anni prese il quinto anno di pianoforte al San Pietro a Majella di Napoli, da esterna l’ottavo anno e a diciotto anni si diplomò. Subito dopo iniziò a dirigere un’orchestra in una compagnia di rivista, ovvero con ballerini, il comico, le soubrette.

La prima volta che Dora sentì alla radio il jazz, fu una folgorazione. Era una bambina e quel sound le era già entrato dentro, rimanendo silente finché non poté che esplodere. Aveva un talento naturale, e grazie alla sua preparazione classica era avvantaggiata, aveva studiato Bach, suonava Rachmaninoff con genialità e talento.

L’esercito americano era sbarcato in Sicilia nel luglio ‘43 portando nell’isola anche la musica swing, la musica nera, e Dora la fece sua.

Nel 1956, a ventidue anni, partecipò al festival del jazz di Modena vincendolo e in seguito pubblicò l'album La regina dello swing per la Cetra di Torino. Iniziò il suo momento d'oro tra dischi, radio, concerti, televisione e festival in cui suonò anche con Hampton, Gillespie. Ci furono i viaggi in Italia e in Europa e concerti con famosi direttori come Scherchen, Urbini, Somogyi, Weismann, Garcia Asencio, Fistoulari. Successi su successi quelli di Dora, e poi il famoso festival di Comblain-la-Tour del 1962 dove suonò con Adderley Cannonball e solo lei, lui e Klaus Doldinger furono ripresi in Eurovisione.

Negli anni '60 si esibisce al Piper Club di Roma insieme a Romano Mussolini, Giovanni Tommaso e Lionel Hampton, "portando quindi il jazz nel tempio della beat". Dora stessa descrive nell’intervista a Gatto il “famoso concerto”: «in quel momento sul palco eravamo in quattro, ma ad un certo punto Nunzio Rotondo, dopo aver suonato insieme per circa un’ora, si rivolse al pubblico dicendo “Ed ora vi lascio con questa meravigliosa pianista” e così se ne andò e mi lasciò sola con la ritmica. E fu un successone».

Già, tanto che Arrigo Polillo, presente in sala, scrisse poi una lunga recensione sulla rivista “Musica jazz”, chiosando: “Che l’avvenire del jazz italiano sia nelle mani femminili?”. Solo che – come ricorda il giornalista Carlo Pecoraro – Polillo, poi nel suo famoso libro jazz non la citerà nemmeno di striscio.

E come lui la maggior parte di quelli che avevano la possibilità e l’autorevolezza per farlo. Per fortuna qualcuno è uscito fuori da quel coro muto, e io ho potuto in qualche modo avvicinarmi a questa grande donna e artista che parlava due “lingue” musicali, cosa che la rendeva una grande tra i grandi. Filippo Carosi Martinozzi scrive nelle note di copertina dell’album Chimere registrato da Dora e il suo quartetto (con lei, Fair Littlecrickets alla chitarra, Tonino Ferrelli al contrabbasso e Roberto Petrin alla batteria) nel 1959: [...] vi è un numero limitato di musicisti che per le loro eccezionali possibilità tecniche e armoniche, per la loro vasta cultura musicale, per la loro varia sensibilità artistica e il loro temperamento dinamico e poliedrico riescono a passare indifferentemente da un genere all’altro di musica, sia esso il jazz o la canzone, la musica folcloristica o quella da ballo, o ancora e addirittura, la musica da camera o quella sinfonica. Per fare solo qualche esempio e dei più facili citeremo il trombettista e cantante e compositore Louis Armstrong, il clarinettista Benny Goodman, il pianista-cantante Nat “King” Cole per la musica leggera, Friederich Gulda, George Gershwin e lo steso Gooman per la musica classica. Come cerro saprete, questi cinque musicisti, si sono dedicati o si dedicano tuttora ai più differenti generi musicali […] Ora però se in tutto il mondo queste interessanti figure di musicisti sono sporadiche, in Italia sono rare o addirittura introvabili. Una delle poche eccezioni è però questa che vi presentiamo: la pianista e cantante Dora Musumeci, l’unica pianista italiana jazz [...]

Nel libro “Breve introduzione alla storia della musica afroamericana - vol. 3” di Guido Michelone, al capitolo “Sotto le stelle del jazz. Donne e canto nero “italiano” – Iniziatrici assolute”, si legge: “Per avere una jazz singer italiana che incide un disco a proprio nome occorre aspettare la fine degli anni Quaranta, quando esordisce a soli 14 anni la catanese Dora Musumeci, una pianista classica che rimane legata al jazz solo per un decennio, esibendosi quale cantante/pianista su celebri standards (This Train, Yesterdays, Somebody Loves Me, That’s My Deside, registrate a suo nome fra il 1952 e il 1954);  This Train con Gorni Kramer alla fisarmonica è dunque il primo disco di canto jazz italiano, che sia firmato da una vocalista la quale è anche leader”.

Negli anni ‘50, in Italia c’era molto entusiasmo per il jazz – dirà ancora Dora nell’intervista a Gatto –, ma poco pubblico. «Era il periodo di Claudio Villa, Nilla pizzi, Carla Boni, la realtà musicale era quella. Sentendomi la gente impazzì. Quando venni fuori prepotentemente diedi fastidio a tutti, ai pianisti maschietti non fece tanto piacere e cercarono di mettermi in tutti i modi i bastoni fra le ruote. In che modo? Certo non potevano sputarmi in faccia. Era una lotta sorda. Ma io continuai a fare la mia strada, la mia musica. Fino a quando ho potuto tirare avanti ho tirato avanti, poi con mio papà ci siamo guardati in faccia: “ora hai trentadue anni, che vogliamo fare?”. Poi – si legge ancora – fui inviata ad un festival a Torino, ero una sorta di organizzatrice in qual caso, di regina del Festival e feci venire Loffredo, Mussolini ma tutti questi erano distaccati, quasi incattiviti, probabilmente pensavano che mi stessi impadronendo della situazione: prima erano loro che chiamavano me, adesso ero stata io a chiamare loro e questo dava fastidio».

Dora non perdeva un colpo, partecipò anche alla registrazione di alcune colonne sonore, lavorando tra gli altri anche con il maestro Ennio Morricone e, per non farci mancare nulla, nel 1994 venne nominata Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica, come eccellenza italiana nel mondo. Della sua vita sentimentale si sa praticamente nulla, era molto riservata, era avanti nella musica ma – come lei stessa disse – nelle cose da ragazzi, sentimentali, era timida. Pare ci sia stato un amore, uno soltanto, un amore difficile e che rimase anonimo.

Questa era Dora, nessuno le regalò mai nulla; ogni conquista, ogni successo fu frutto solo del suo talento e della sua tenacia. Si dovette scontrare con una mentalità maschilista, con un muro di gente che non aveva intenzione di regalare nulla. Tantomeno a una donna. Ma per lei il jazz era “un fatto viscerale”, un grande amore. Anche quando lasciò il palcoscenico per dedicarsi definitivamente all’insegnamento continuò a scrivere pezzi.

Mi rattrista il fatto che non potrò mai conoscerla di persona. Il 19 settembre del 2004 fu travolta e uccisa da un pirata della strada. Attraversava Corso Italia, all’altezza della chiesa del Cristo Re. Era domenica e a Catania c’era il sole quel giorno. Fu trasportata agonizzante all’ospedale Garibaldi con un trauma polmonare, un trauma cervicale e fratture multiple. Lottò con la morte per venti giorni, lasciando questo mondo il 12 ottobre.

Vi invito a cercare sul web la sua musica anche se troverete poco o niente rispetto alle sue numerose esibizioni e straordinarie interpretazioni come quelle di George Gershwin, suo punto di riferimento.

Giornalisti esperti di musica ancora oggi non conoscono Dora Musumeci o l’hanno “scoperta” da poco; solo per fare un esempio, Lorenza Cattadori, esperta e innamorata del jazz, un anno fa durante il suo programma radio ha detto “Scopro per caso questa pianista così stupefacente, completa, eclettica, e mi stupisco di averla sentita solo di nome, di non averla mai vissuta, approfondita”.

Vedete, sessanta, settant’anni fa che una donna cantasse il jazz poteva anche andar bene, ma suonarlo, quello no, quello doveva evidentemente rimanere appannaggio degli uomini. Una realtà questa che permane; seppur qualcosa è cambiato, basta analizzare la situazione attuale e poi metterla sul piatto della bilancia.

È il momento di dimostrare che la musica vola davvero alto, libera. È il momento di dare a Dora Musumeci quel che è suo. E in fondo di tutti noi.

(pubblicato su Eudonna)
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di Marta Genova