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La corsa è diventata la sua salvezza dall’abuso. Fuggire dalla violenza domestica grazie allo sport

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Eliana Patelli, una laurea in Scienze motorie e un buon numero di medaglie vinte nella sua nuova vita da maratoneta cominciata la sera in cui decise di correre lontano dall’inferno della casa coniugale
Eliana Patelli

C’è stato un momento durante l’intervista a Eliana Patelli in cui ho pensato alla scena di un film che ho amato molto, interpretato e diretto da Halle Barry. “Bruised – Lottare per vivere”. Jackie Justice, la protagonista, travolta e schiacciata nell’anima dalla sua condizione fisica e mentale, apre la porta di casa, fa freddo, fa un respiro profondo come se dovesse immergersi in un mare profondo e inizia a correre, forte, fortissimo. La sua meta è la libertà.
Eliana oggi ha 45 anni e la libertà l’ha ritrovata grazie allo sport che le ha salvato la vita.

Lo sport per te è amore che l’accompagna da sempre. Oggi è una maratoneta con grandi successi e vittorie, ori e argenti, ma quali sono stati i suoi inizi?
La pallavolo è stato il mio primo amore, l’ho praticata a livelli anche alti, fino alla serie B a Bergamo. La mia prima vita è molto legata allo sport e non è un caso che ho anche scelto di laurearmi in scienze motorie. In famiglia lo sport era molto presente e ho ricevuto in questo senso un’educazione molto severa. Lo sport dà regole e disciplina e questo mi ha aiutato.

E poi c’è la tua seconda vita. A vent’anni conosce l’uomo che le ha fatto del male
Ero poco più che una ragazzina. Lui mi ha aiutato a crescere sotto tutti i punti di vista. Io vivevo in una valle di Bergamo, con un’educazione rigida e lui mi ha aiutato ad andare via da lì, a vedere il resto e mi ha subito dato il calore di una famiglia del sud, la sua, di cui mi innamorai; il “trappolone malefico” in cui sono caduta credo sia stato proprio questo. La contropartita è stato ritrovarmi coinvolta nel suo mondo, opposto a quello da cui provenivo in cui non esistevano droga, alcol.

Quando l’hai capito?
Dopo pochi mesi. Una sera eravamo in un locale e improvvisamente mi ritrovai per terra, tirata giù dai pantaloni, lui mi stava trascinando violentemente fuori perché avevo abbracciato un nostro amico, omosessuale oltretutto, ma lui era talmente alterato da droghe e alcool da non capire più niente. Tutti guardavano rimanendo immobili. Salimmo in auto con un suo amico, stavo dietro attonita, ammutolita e lui mi sputava addosso. Accostò l’auto in una piazzola di sosta e mi trascinò fuori abbandonandomi in autostrada.

Cosa successe in seguito?
Tornarono indietro e mi portarono a casa. Quella notte ho fatto il mio più grande errore, che credo sia quello di tutte le donne che poi subiscono violenze: perdonarlo la prima volta. Perché è così che succede, dopo la prima volta seguono sempre le altre. Mi trovai a casa in lacrime, disperata, ma ai miei genitori non ebbi il coraggio di raccontare cosa era successo. Loro lo adoravano e dissi solo che avevo litigato, così quando il giorno dopo lui mi cercò insistentemente, loro, ignari, mi dissero di rispondergli, che i litigi capitano. Non riuscivo a dirgli chi era veramente l’uomo che avevo accanto.

Sei stata con lui per anni e vi siete anche sposati
I primi tempi della relazione filava tutto liscio, ci vedevamo solo il weekend, lui lavorava molto in giro per l’Italia. Dopo sei mesi ci fu il primo episodio di violenza. Dopo sei anni ci siamo sposati. L’ho fatto pur sapendo che non sarebbe mai cambiato.

E la famiglia di lui? Le famiglie sanno come sono i figli, le madri lo sanno...
Eccome se lo sanno. E infatti per loro io ero la salvatrice. La mattina dell’appuntamento con il prete per chiedere il nullaosta per il matrimonio, lui si presentò in ritardo e devastato dalla sera prima. Era la festa della mamma, ma io non ebbi la forza di andare dalla mia. Andai invece dalla sua e le portai un fiore  e guardandola negli occhi le chiesi: “Se io fossi sua figlia, lei che mi direbbe di fare?”. Mi rispose, “Di portare pazienza”.

Anni di violenza psicologica e fisica. Di umiliazioni, di privazioni. E i tuoi genitori?
Presto capirono tutto, vedevano ossa rotte, lividi sul corpo. Una volta al mare, videro la mia schiena livida perché mi aveva buttato giù dalle scale. Io inventavo scuse, volevo difenderli da quella verità e difendevo lui ma per una vergogna che provavo io, per la paura del giudizio… la maledetta catena che ci lega in queste cose: la paura del giudizio. E poi ero isolata, senza amici, i suoi erano solo suoi. Mi vietava di crearmi delle amicizie. Smisi anche di giocare a pallavolo.

Il giorno del tuo matrimonio tuo padre fece un gesto che non ha mai dimenticato
Sì, lo abbracciò davanti all’altare e gli disse “Non mi deludere”. Mio padre è un cocciuto testardo, e gli diede una seconda possibilità.

Non avresti voluto che invece gli dicesse “vai via, lascia in pace mia figlia”?
Mio padre è stata la mia salvezza. Una notte lui, come faceva regolarmente, mi chiuse in casa prima uscire. Avevo iniziato ad avere violenti attacchi di panico e chiamai i miei. Arrivarono, c’era un cancelletto a separarci. Mio padre mi disse “Sei tu che devi decidere, non posso dirti niente e non posso fare niente io perché torneresti di nuovo da lui”. La sera seguente eravamo a cena dai miei e anche in quell’occasione mio padre non disse nulla. Qualunque altro genitore forse lo avrebbe pestato, ma è stato il segnale più intelligente e grande del mondo per me. Se lo avesse fatto probabilmente io avrei provato pena per lui, senso di colpa.

Tuo padre soffriva...
Sì, mio padre lo avrebbe ammazzato, lo conosco, ma ha scelto la cosa migliore insieme a mia madre. Che toccassi il fondo. Loro poi sarebbero stati lì per me.

Hai mai denunciato?
No, non volevo iniziare alcun iter assurdo che mi avrebbe fatto rivivere quelle cose, quelle umiliazioni, quel dolore così forte. Volevo solo chiudere e non vederlo mai più. Poi negli anni capisci che denunciare è la cosa che ogni donna dovrebbe fare ma in quel momento avevo già fatto il passo di andarmene “in tempo”. Prima che mi ammazzasse lui, o che mi ammazzassi io.

Una domenica di febbraio del 2006 hai iniziato a correre e non hai più smesso…
Ormai non dormivo più e non mangiavo più. Lui non era ancora tornato da uno dei suoi sabati di devastazione. Abitavamo a Clusone e nevicava tantissimo. Ricordo che misi la giacca da neve sopra il pigiama e uscì fuori. Piangevo e non volevo che le persone mi vedessero, così iniziai a correre, e piangevo e correvo e piangevo. Ho corso per un’ora e mezzo senza rendermene conto e non ho più smesso. La corsa mi aiutava a buttare fuori il dolore. E negli anni a seguire ogni volta che correvo, piangevo. Pochi mesi dopo chiamai i miei e chiesi di venirmi a prendere. Lui era presente mentre facevo le valige ma non avevo alcuna paura. Era il momento.

Mi dici qualcosa dei tuoi allenatori?
Sono parte fondamentale della mia rinascita. Il mio primo, nel 2008, è stato il grande Migidio Bourifa, ha raccolto i miei pezzi e con lui ho vinto la prima maratona a Bergamo. Il mio ultimo allenatore è stato Gilberto Bruschin, detto Gibo, un secondo padre per me. Ci siamo conosciuti su una roccia, “Tu hai bisogno di me ma io ho bisogno di te” mi disse.
Pian piano ho smesso di piangere mentre correvo, grazie alla corsa ho aperto le spalle, ho iniziato a respirare e a credere in me stessa. Ma ora ho deciso di smettere. La maratona a certi livelli ti distrugge fisicamente, ho avuto non so quanti infortuni che mi costringevano a stare ferma e arrivato l’ultimo ho detto basta. 

Non correrai più?
Mi alleno sempre tutti i giorni ma senza orologio, le gare non sono la mia priorità. Adesso lavoro sette giorni su sette, le sere in un bar, siamo in due, accogliamo cinquecento persone ed è una cosa bellissima! Questo ha sostituito l’adrenalina delle gare.

A chi diresti un grazie
Il primo grazie lo dico a me stessa, di aver avuto il coraggio di vivere tutto, di aver toccato il fondo e di rialzarmi.

Un sogno nel cassetto che ancora vuoi realizzare?
Avere dei bambini è il primo dei sogni. Diventare madre è quello che ho sempre desiderato.

(Pubblicato sul mensile cartaceo FEME NEWS)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

di Marta Genova